
Di seguito qualche considerazione inerente il trattamento fiscale relativo alla riscossione di compensi professionali o per attività imprenditoriale di servizi, sopravvenute alla cessazione dell’attività professionale da parte di professionisti o alla cancellazione di imprese individuali o sociali presso il Registro delle Imprese.
La materia, trattata dalla Corte di Cassazione SS. UU. n. 8059/2016 (giudice relatore Aurelio Cappabianca), appare ulteriormente interessante se viene calata nelle più complesse problematiche trattate dalle SS. UU. n. 6070/2013 in merito alla estinzione delle società commerciali conseguente alla cancellazione delle stesse dal Registro delle Imprese.
Per ciò che attiene al caso del professionista che incassa i compensi professionali successivamente alla cessazione dell’attività professionale, estensibile anche al caso dell’imprenditore che incamera i corrispettivi dopo che ha cessato l’attività di prestazioni di servizi, la Suprema Corte, interpretando le norme del decreto Iva italiano alla luce delle direttive euro-unitarie in materia, ha statuito che tali operazioni di incasso, anche se avvenute in un momento in cui il percipiente non è più titolare della partita iva, quindi privo della condizione soggettiva prevista dall’art. 1 del DPR n. 633/1972, è comunque tenuto a versare l’iva all’Erario, ovviamente con obbligo di rivalsa a carico del committente.
In sostanza, l’ex soggetto iva dovrà comunque emettere una fattura con addebito dell’iva a carico del committente, con aliquota vigente all’epoca in cui le operazioni furono eseguite, versare l’iva all’Erario e dichiararla nella dichiarazione annuale, magari facendo riferimento al vecchio numero di partita iva.
La Corte ha chiaramente detto che gli aspetti formali, relativi alla dichiarazione di cessazione dell’attività ex art. 35/633 e contestuale dismissione del numero di partita iva, non possono incidere su aspetti sostanziali normati a livello euro-unitario, altrimenti violando i principi di uguaglianza, imparzialità e capacità contributiva (artt. 3 e 53 Cost.), nonché il principio euro-unitario di neutralità dell’iva, teso ad evitare ogni forma, anche indiretta, di alterazione della concorrenza.
L’intervento di nomofilachia compiuto dalla Corte ha dovuto fare i conti con la chiara dizione letterale dell’art. 6, comma 3, del DPR n. 633/1972 “Le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo”.
Sulla base della norma italiana l’operazione andrebbe riguardata all’atto dell’incasso, per cui trattandosi di percipiente privo di soggettività iva ex art. 1/633, questa non sarebbe più soggetta ad iva.
Ma di quale operazione stiamo parlando ?? Della riscossione di un’operazione (prestazione di servizi) eseguita all’epoca in cui il soggetto era in attività e titolare di partita iva, oppure del conseguente incasso dei compensi scaturenti da tale operazione ?? E’ evidente che la norma italiana, riduttivamente, risponde alla seconda fattispecie sopra formulata.
L’Iva colpisce le CESSIONI di BENI e le PRESTAZIONI di SERVIZI.
Secondo la Direttiva UE n. 112/2006 l’Iva colpisce l’esecuzione di prestazioni di servizi, quindi il fatto generatore della fattispecie imponibile è dato dalla “materiale” esecuzione della prestazione di servizi. L’art. 66 della Direttiva consente agli Stati membri di prevedere che l’esigibilità dell’imposta possa essere rinviata al momento successivo dell’incasso del prezzo della prestazione.
Dunque, a seguito della chiara scissione tra i due momenti : 1) esecuzione della prestazione professionale o di servizi, e 2) incasso della prestazione, si può comprendere come il primo definisca il sorgere dell’obbligazione del prestatore verso lo Stato, il secondo al massimo potrà costituire il momento in cui tale obbligazione sia anche esigibile (scaduta).
Il primo momento (espletamento della prestazione) è quello che deve rispondere a tutti e tre i requisiti ex art. 1/633. Trattasi del momento in cui il credito iva dello Stato nei confronti del contribuente – soggetto d’imposta è certo, in quanto con l’esecuzione della prestazione si manifesta la materia imponibile, rinviando al secondo momento (incasso della prestazione) solo l’occasione per la esigibilità del credito (già definito giuridicamente), quindi la sua scadenza, cioè l’obbligo, da parte del percipiente, di versare l’imposta allo Stato ex art. 17, comma 1, DPR n. 633/1972.
Secondo la Corte, quest’ultimo è l’unico senso possibile del citato comma 3 dell’art. 6/633 che emerge dalla attività interpretativa del giudice italiano, vincolato dai canoni euro-unitari in materia di imposte armonizzate.
Quindi, schematizzando :
- Fatto generatore dell’obbligazione : esecuzione dell’operazione nel tempo in cui il soggetto è in possesso dei tre requisiti ex art. 1/633. Il credito ha una precisa definizione giuridica ed è liquido nei termini in cui è nota l’aliquota iva applicabile ratione temporis;
- Incasso del corrispettivo : scadenza dell’obbligazione sorta nel punto sub 1), quindi esigibilità dell’imposta, con obbligo di versamento all’Erario, nonché obblighi dichiarativi.
La sentenza non riguarda anche la sorte delle dirette.
Io ritengo che se trattasi di redditi professionali, l’incasso della prestazione debba essere dichiarato e assoggettato ad imposizione nel periodo d’imposta dell’incasso, in applicazione del criterio di cassa. Idem se trattasi di soggetto che all’epoca dell’esecuzione della prestazione era nel regime introdotto con effetto 01/01/2017 dei c.d. semplificati di cassa. Se, invece, trattasi di imprenditore in regime ordinario, la prestazione di servizi andava dichiarata nel periodo di ultimazione della stessa, ai sensi dell’art. 109 Tuir, comma 2, lett. b).
In effetti, a ben vedere, la sentenza in commento dà per scontato che il soggetto che cessa l’attività professionale possa dismettere la partita iva ancor prima di aver “liquidato” tutte le operazioni imponibili, nonostante la chiara dizione delle ultime parole del comma 4, dell’art. 35 della nostra legge iva.
“4. In caso di cessazione dell’attività il termine per la presentazione della dichiarazione di cui al comma 3 decorre dalla data di ultimazione delle operazioni relative alla liquidazione dell’azienda, per le quali rimangono ferme le disposizioni relative al versamento dell’imposta, alla fatturazione, registrazione, liquidazione e dichiarazione. Nell’ultima dichiarazione annuale deve tenersi conto anche dell’imposta dovuta ai sensi del n. 5) dell’articolo 2, da determinare computando anche le operazioni indicate nel quinto comma dell’articolo 6, per le quali non si è ancora verificata l’esigibilità dell’imposta.”
In effetti, un’interpretazione troppo rigida, tesa ad obbligare il soggetto passivo a rimanere titolare della partita iva fino all’incasso di tutte le prestazioni di servizi, eseguite in costanza della propria attività economica, oltre a cozzare contro ulteriori e rilevanti esigenze di sistema, non pare sufficientemente supportabile dalla normativa euro unitaria cui accede. Infatti, l’art. 213 della Direttiva n. 112/2006 si esprime in modo più elastico e meno stringente sul piano burocratico :
Articolo 213. 1. Il soggetto passivo deve dichiarare l’inizio, la variazione e la cessazione della propria attività in qualità di soggetto passivo.
Pertanto, ritengo che la sentenza in parola sia stata rispettosa della concreta portata applicativa della normativa IVA applicabile in Italia.
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Appare ora interessante indagare sul comportamento che devono assumere le società commerciali cancellate dal Registro delle Imprese, in occasione di riscossione, da parte dei soci, di crediti scaturenti da prestazioni di servizi effettuate dalla società e non pagate, né contestate, dal debitore alla data di cancellazione della società dal Registro delle Imprese, né oggetto di specifica destinazione nell’ambito del bilancio finale di liquidazione.
In effetti la questione non è passata del tutto inosservata neppure all’analisi della Sent. N. 8059/2016 che, nel sotto riportato arresto n. 4.2.2, ha dato atto dell’applicabilità dei principi di diritto anche ai soci di società estinte.
4.2.2 – Nell’indicata prospettiva – e alla luce della previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 35 bis, comma 1, (che, con riguardo all’iva, riconosce ruolo agli eredi del contribuente) nonché dell’elaborazione giurisprudenziale, in tema di imposte dirette, sulla natura dei compensi del professionista conseguiti dagli eredi dopo la sua morte (cfr. Cass. 4785/09) – non emergono, peraltro, ragioni logico-giuridiche ostative all’applicazione della soluzione indicata relativamente ai corrispettivi di prestazioni eseguite, nell’esercizio dell’attività economica di soggetto deceduto o di società estinta, incassati dagli eredi o dai soci.
Ma a questo punto c’è da chiedersi come devono regolarsi i soci che percepiscono somme soggette ad iva, successivamente alla cancellazione della società.
Sul punto va ricordato che le SS. UU. n. 6070-6072 /2013 hanno enunciato taluni principi di diritto secondo cui, con la estinzione della società, come statuita dall’art. 2495 cc, per i beni ed crediti che dovessero sopravvenire, tra i soci si crea una comunione ordinaria di beni, ovviamente comprensiva anche dei crediti (diritti) rimasti non riscossi all’atto della richiesta di cancellazione dal Registro delle Imprese.
Ecco l’arresto conclusionale della Sentenza :
“ 6. Traendo le fila del discorso svolto, in relazione alle questioni per le quali i ricorsi sono stati portati all’esame delle sezioni unite, si possono dunque enunciare i seguenti principi di diritto:
“Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato”.
Pertanto, con la riscossione di crediti relativi a prestazioni di servizi compiute pendente societate, i soci divengono responsabili del versamento all’Erario dell’Iva incassata, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 35 bis del DPR n. 633/1972, che si riporta integralmente.
Art. 35-bis Eredi del contribuente
[1] Gli obblighi derivanti, a norma del presente decreto, dalle operazioni effettuate dal contribuente deceduto possono essere adempiuti dagli eredi, ancorché i relativi termini siano scaduti non oltre quattro mesi prima della data della morte del contribuente, entro i sei mesi da tale data .
[2] Resta ferma la disciplina stabilita dal presente decreto per le operazioni effettuate, anche ai fini della liquidazione dell’azienda, dagli eredi dell’imprenditore.
Atteso che nelle società estinte, i soci assumono anche la veste tipica degli eredi del de cuius, essi hanno l’obbligo dichiarativo per l’iva incassata post cessazione a nome della società cessata, già titolare del numero di partita iva. Ovviamente, l’obbligazione del pagamento dell’iva all’Erario, sarà solidale tra i soci oppure semplicemente pro-quota, in base al rapporto che legava i soci pendente societate, per cui se trattasi di soci di società di capitale, ogni socio sarà obbligato a versare la quota di iva in proporzione a quanto riscosso, e comunque nei limiti dell’intero importo effettivamente riscosso post cessazione ed in occasione dell’approvazione del B.F.L., se trattasi di società in nome collettivo, la responsabilità per il pagamento dell’iva incassata post cancellazione è illimitata e solidale come statuito dall’art. 2291 cc, senza alcun limite procedurale posto dall’art. 2304 del cc., attesa l’inesistenza del patrimonio sociale, conseguente all’inesistenza del soggetto giuridico titolare.
In sostanza, l’art. 2495 cc, allorquando dispone che ogni socio può essere chiamato a versare quanto ha riscosso in sede del bilancio finale di liquidazione, apre la possibilità, a favore del creditore sociale (Agenzia Entrate/Equitalia), di aggredire ogni singolo socio nei limiti dell’intero importo riscosso in occasione della liquidazione finale, comprese le sopravvenienze di cui hanno trattato le tre sentenze del 2013. Trattandosi di debiti di natura successoria, come spiegato dalle SS UU del 2013, troverebbe applicazione l’art. 752 cc, per cui ogni socio dovrebbe rispondere nei limiti della quota di partecipazione al capitale sociale pendente societate. Io ritengo che la chiara dizione dell’art. 2495 cc consenta di superare il limite “pro-quota” ex art. 752, per cui il creditore può aggredire il socio nei limiti dell’intero importo ricevuto, salve le azioni di regresso tra i soci rispettose delle quote sociali possedute in vigenza del contratto sociale.
c.c. art. 2495. Cancellazione della società.
Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese.
Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi [c.c. 31, 2312, 2324]. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società.
In definitiva, ritengo che i principi posti dalla 8059/2016, coordinati con gli arresti delle SS UU del 2013, trovino applicazione anche per le prestazioni di servizi riscosse post estinzione del soggetto sociale, con obbligo, per gli ex soci di srl, spa e soci accomandanti di sas, di versare all’Agenzia delle Entrate l’importo iva non pro-quota, bensì integralmente, nei limiti di quanto riscosso in base al bilancio finale di liquidazione, nonché delle sopravvenienze riscosse e non comprese in detto bilancio, salve le azioni di regresso tra i soci, in base alle quote di partecipazione pendente societate. Infatti, l’art. 2495 del cc pone un limite alla responsabilità sociale, ma attribuisce chiari diritti a favore dei creditori sociali insoddisfatti, tale per cui esso si prospetta come una norma speciale, quale sintesi e compromesso di interessi contrapposti tra soci e creditori sociali insoddisfatti, rispetto all’applicazione delle regole tipiche della comunione ordinaria di beni (artt 1101, comma 2, 1104, 1115 e 1116 cc) ed anche rispetto a quelle iure successionis di cui agli artt. 727, 752, 754 e 757 cc. .
Infine, in subjecta materia, è intervenuta la novella di cui al comma 4, art. 28 del D. L.vo n. 175/2014 che si riporta : 4. Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese.
Pertanto, limitatamente alle obbligazioni tributarie e previdenziali, le società estinte mantengono una determinata soggettività (sopravvivenza giuridica) per ulteriori 5 anni post richiesta di cancellazione dal Rdi, per cui gli enti (Agenzia Entrate, Inps, Inail ed Equitalia) possono notificare validamente gli atti alla società, quindi al (ultimo) legale rappresentante della società all’epoca in cui era in vita.
Secondo la Corte di Cassazione la norma ha natura di diritto sostanziale e non procedurale, per cui è applicabile solo alle cancellazioni verificatesi dalla sua data di entrata in vigore. Leggasi l’interessante arresto della Sentenza n. 6743/2015 : 2.2.- Con riguardo all’ambito temporale di efficacia della norma, giova osservare che questa intende limitare (per il periodo da essa previsto) gli effetti dell’estinzione societaria previsti dal codice civile, mantenendo parzialmente per la società una capacità e soggettività (anche processuali) altrimenti inesistenti, al “solo” fine di garantire (per il medesimo periodo) l’efficacia dell’attività (sostanziale e processuale) degli enti legittimati a richiedere tributi o contributi, con sanzioni ed interessi. Nella relazione illustrativa al d.lgs. si afferma che l’obiettivo della norma è quello di “evitare che le azioni di recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate”. Il legislatore, in altri termini, vuole disciplinare l’imputazione alla società di rapporti e situazioni nella sfera di relazioni con i suddetti “enti creditori” durante il periodo quinquennale successivo alla richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese, stabilendo nei confronti (solo) di tali enti e per i suddetti rapporti la temporanea inefficacia dell’estinzione della società eventualmente verificatasi in quel periodo.
In definitiva, ritengo che la società estinta ex art. 2495 cc, per i successivi 5 anni, continuerà a ricevere validamente le notifiche di provvedimenti tributari e previdenziali, contro i quali potrà difendersi personalmente, per il tramite del suo ultimo legale rappresentante. Nei casi di soci di società di capitali, la difesa contro tali atti potrà essere esercitata anche da questi ultimi, atteso che gli effetti patrimoniali negativi degli atti stessi non potranno che incidere su di loro, sia pure nei limiti di quanto gli è stato assegnato in sede di bilancio finale di liquidazione. D’altronde, una società liquidata e cancellata dal Registro imprese, quindi estinta, non potrà essere titolare di nessun patrimonio, restringendosi così l’interesse della P. A. impositrice, ex art. 28 D.lvo n. 175/2014, solo alla validità ed efficacia della notifica degli atti, non certo alla effettiva soddisfazione delle proprie posizioni creditorie nei confronti del patrimonio di un soggetto che nulla può possedere in quanto de facto cessato ed inesistente. Conseguentemente, la portata dell’art. 28 va adeguata alla realtà delle cose, limitata alla sopravvivenza giuridica di un soggetto sostanzialmente nullatenente.
L’eccezione che conferma la suddetta “regola” è data proprio dal caso in cui vi sono delle sopravvenienze attive, quindi diritti spettanti alla società post cancellazione dal Rdi. In questi casi, gli Enti potrebbero eseguire l’apprensione di tali diritti, ai fini della soddisfazione dei loro crediti tributari e previdenziali direttamente nei confronti della società, senza che vengano fatti confluire nella comunione o contitolarità degli ex soci. Inoltre, gli Enti potrebbero agire direttamente nei confronti della società, quindi dell’ultimo L.R., nei casi in cui, dal bilancio finale di liquidazione, emerga che taluni beni non sono stati ancora assegnati, quindi ancora formalmente intestati al soggetto estinto.