
(ART. 20 DEL DPR N. 131/1986)
Di seguito un breve appunto sull’altalenante posizione del nostro Giudice nomofilattico concernente la concreta applicazione dell’art. 20 del DPR n. 131/1986 (c.d. Legge del Registro) in collegamento all’art. 10 bis dello Statuto del contribuente (abuso del diritto).
Le presenti riflessioni sono state stimolate dall’intervento del Notaio Pappamonteforte di Napoli nel corso della lezione tenuta ai partecipanti al Master di II livello in diritto tributario organizzato presso l’ODCEC di Caserta.
La “Vecchia Guardia” della Sezione V della Suprema Corte ha chiaramente definito l’art. 20 del DPR n. 131/1986, quale norma di riqualificazione degli atti posti in essere dai contribuenti in base all’effettiva sostanza economica che essi esprimono, come regolata dalle norme giuridiche. Quindi, l’Agenzia delle Entrate dispone del potere-dovere di accertare gli effetti economici sostanziali, come prefigurati e regolati dall’Ordinamento, prodotti dalle parti di uno o più atti tra loro indissolubilmente collegati. In buona sostanza, l’Agenzia deve indagare su cosa obiettivamente e concretamente le parti hanno posto in essere e da quali norme tali “cose obiettive e concrete” sono regolate.
In senso giuridico non si può parlare di atti o fatti nella loro oggettività, senza considerare quali fattispecie astratte, come prefigurate dal Legislatore, essi integrano; Cioè, bisogna sempre tenere conto delle norme sotto le quali i fenomeni della realtà effettuale vanno sussunti. Questa precisazione serve per capire il collegamento che esiste tra le parole che il legislatore ha utilizzato per scrivere il seguente art. 20 del DPR n. 131/1986 :
Art. 20 Interpretazione degli atti. L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente.
La norma dice semplicemente che l’imposta di registro si applica sulla effettiva sostanza economica (intrinseca natura) degli atti come definita e regolata dalle norme giuridiche. In fondo, l’effettiva sostanza economica è quella che esprime al meglio la capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. . Quindi, la possibile riqualificazione degli atti di cui all’art. 20 è semplicemente strumentale all’applicazione dell’imposta di registro sull’atto sottoposto a tassazione. Tale riqualificazione non produce nessun effetto sul piano dei rapporti tra le parti contrattuali, nel senso che, ai fini civilistici, gli effetti voluti dalle parti ex art. 1322 cc come interpretati ex artt. 1362 e segg. cc rimangono intatti, assolutamente indifferenti all’interpretazione degli atti ex art. 20/131, quale lex specialis avente unico scopo quello tassare gli atti nel rispetto della effettiva capacità contributiva dei soggetti.
La giurisprudenza di legittimità ha anche chiarito che il termine “riqualificazione” non deve essere inteso nel suo significato etimologico, bensì quale attività di interpretazione degli atti, altrimenti configgendo con l’art. 41 della Costituzione. Fin qui, per interpretazione degli atti si intende anche l’interpretazione della effettiva volontà delle parti.
Invece, il ruolo della effettiva volontà espressa dalle parti negli atti sottoposti a tassazione non ha avuto un chiaro ed univoco inquadramento da parte della Corte. Cioè non è del tutto pacifico se esso scema a semplice elemento costitutivo della fattispecie tributaria o debba sostanziare un vero e proprio vincolo per l’interprete.
L’azione dell’ufficio impositore è di tipo “unidirezionale” nel senso che parte dagli atti sottoposti a registrazione, ne legge il contenuto civilistico, quindi la volontà espressa dalle parti, ed i vincoli sinallagmatici formulati dalle stesse (artt. 1218, 1322 cc), e verifica se gli effetti sostanziali corrispondono ai contenuti formali degli atti o esorbitano dagli stessi. In questa seconda ipotesi, gli uffici finanziari esercitano il potere-dovere tipizzato dal suddetto art. 20, attraverso un’analisi che considera i contenuti privatistici quali possibili elementi costitutivi della più complessa fattispecie tributaria, così facendo regredire (scemare) i rapporti giuridici contenuti negli atti sottoposti a registrazione ad elementi che, insieme ad altri considerati dall’ufficio nel rispetto delle regole probatorie ex art. 2697, comma 1 e regole motivazionali ex art. 7 L. n. 212/2000, concorrono alla definizione della più complessa fattispecie tributaria, avente quale unico fine quello della definizione della giusta tassazione dell’atto (o degli atti tra loro collegati) secondo le regole del DPR n. 131/1986, in applicazione del superiore principio di cui all’art. 53 Cost. . Le conclusioni dell’accertamento compiuto dall’ufficio non costituiscono, ex sé, prove che l’una parte può opporre all’altra nei loro rapporti di diritto civile.
Quindi non producono efficacia di tipo civile, direi da “retroazione” di natura extrafiscale.
Giusto per completezza, ritengo utile segnalare un caso in cui si verifica l’effetto opposto alla fattispecie delineata dal citato art. 20. Si tratta della norma introdotta con L. n. 311/2004, art. 1, comma 346, relativa alla nullità dei contratti di locazione non presentati per la registrazione. In questo caso, la carenza di un adempimento fiscale, tradotto dalla legge come causa di nullità assoluta di diritto privato, determina la nullità del contratto nei rapporti tra le parti, per cui il locatore non avrà diritto al pagamento del canone di locazione da parte del conduttore, ma probabilmente dovrà accontentarsi della “magra indennità” che scaturisce dal parametro dell’indebito arricchimento, delineato dall’art. 2041 cc, quindi della minore somma tra il danno subito dal locatore ed il vantaggio conseguito dall’inquilino, con esclusione del danno da lucro cessante, altrimenti applicandosi l’art. 2043 cc, sicuramente inconferente nel caso di specie attesa la presenza, nella realtà effettuale, di un valido contratto di locazione inter partes, peraltro stipulato ex ante (veggasi anche Cass. SS UU n. 23385/2008).
L’effetto prodotto dalla summenzionata fattispecie va nella direzione opposta a quello dell’art. 20/131, in quanto, la carenza di un adempimento tributario determina un effetto diretto (nullità contrattuale) di diritto civile.
Come potrà osservarsi, l’art. 20 si riferisce a situazioni reali, palpabili, ad effetti economici prodotti nella realtà effettuale, inquadrabili (sussumibili) nelle relative fattispecie giuridiche prefigurate dal legislatore, anche in dissenso da quanto dichiarato (attenzione : non sto dicendo “da quanto voluto”) dalle parti nei singoli atti sottoposti a tassazione, tant’è che questi scemano a semplici elementi costitutivi della più complessa fattispecie tributaria regolata dal DPR n. 131/1986, finalizzata a tassare quanto effettivamente determinato dalle parti nella realtà economica.
E’ evidente che oggetto della tassazione (imposta di registro) non è l’atto-documento, bensì l’atto-negozio giuridico.
Da tutto quanto sopra osservato in merito alla procedura di accertamento applicabile ai sensi dell’art. 20 legge del registro non emerge nessun elemento elusivo, né di abuso del diritto. Cioè, secondo quanto spiegato da consolidata Cassazione a tutto il 2016, l’ufficio non deve provare alcun carattere elusivo, di abuso del diritto, delle operazioni poste in essere dai contribuenti, né è sottoposto all’attivazione del contradditorio preventivo con i contribuenti interessati.
Anzi, tenuto conto che la “ratio principe” della normativa antiabuso, ora contenuta nell’art. 10 bis dello Statuto del Contribuente, è quella di colpire gli atti privi di sostanza economica, finalizzati al solo risparmio o “utile” fiscale, la procedura di accertamento di riqualificazione degli atti ai fini della tassazione del registro, si pone nella opposta direzione. Si tratta di procedure con finalità assolutamente lontane ed indipendenti l’una dall’altra, per cui nessuna delle due potrebbe concorrere all’altra quale elemento costitutivo della fattispecie. Trattasi, quindi di distinte fattispecie astratte, autonomamente e separatamente definite dal legislatore tributario.
Queste “schematiche” e forse semplicistiche rappresentazioni della giurisprudenza nomofilattica relativa all’art. 20 del DPR n. 131/1986, sono state poste, sia pure velatamente, in discussione da una recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V, nella nuova composizione. Trattasi della sentenza n. 2054/2017 della V Sezione (Presid. Dr Angelo Spirito e Giudice relatore Dr D’Isa Claudio) nella quale viene in qualche modo “rievocata” la visione dell’art. 20/131 in funzione antielusiva.
La successiva sentenza n. 3562, a firma del dr Mario Cicala, già presidente della V Sezione, relativa ad una Camera di Consiglio di fine 2015 e depositata il 10/02/2017, ponendosi in sostanziale contrapposizione con quelle della stessa Sezione in nuova composizione, ribadisce l’assenza di qualsiasi carattere antielusivo dell’art. 20 del DPR n. 131/1986.
Da ultimo, la sentenza n. 6758/2017 (Presid. Dott.ssa Di Iasi Camilla e giudice relatore Dr Enrico Carbone) cerca di risolvere l’antinomia prodottasi all’interno della V Sezione senza rimettere gli atti al Primo Presidente per l’eventuale intervento delle Sezioni Unite, sostanzialmente ribadendo e chiarendo meglio la posizione della “Vecchia Guardia”, quindi l’assoluta assenza del fine antielusivo all’interno della procedura accertativa di riqualificazione degli atti ai fini della tassazione del registro.
Se invece, fosse prevalsa (o dovesse in futuro prevalere) la posizione di chi sostiene il concorrente carattere antielusivo dell’art. 20, gli avvisi di accertamento andrebbero integrati con il contraddittorio endoprocedimentale. A parte ogni valutazione tecnica sulla concreta portata della norma analizzata, c’è da dire che dopo qualche ripensamento la Cassazione interviene pro-fisco per risolvere in nuce un problema che poteva diventare serio per le casse dello Stato !
Infatti, gli atti dell’Amministrazione finanziaria, assunti in assenza del contraddittorio endoprovvedimentale, ove espressamente previsto dalla legge per le imposte non armonizzate, costituisce elemento (formale) di validità dell’atto, in assenza del quale, qualora il contribuente abbia tempestivamente eccepito tale causa di nullità nel primo grado di giudizio, il giudice tributario è tenuto ad annullare l’avviso di accertamento, non potendo entrare nel merito del ricorso, nei limiti di cui all’art. 7 del D. L.vo n. 546/1992, per carenza assoluta di legittimità dell’atto che “contiene” l’obbligazione tributaria. Indi anche la funzione di giudizio di obbligazione né rimane frustata.
Ad ogni buon fine riporto i principi di diritto espressi dalla ultima citata n. 6758/2017 :
Il giudice di rinvio si atterrà ai seguenti princìpi di diritto:
- a) “in tema di imposta di registro, il P.R. n. 131 del 1986, art. 20 non detta una regola antielusiva, ma una regola interpretativa, che impone una qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva, a prescindere dall’eventuale disegno o intento elusivo delle parti; ne consegue che il conferimento societario di un’azienda e la cessione dal conferente a terzi delle quote della società conferitaria devono essere qualificati come cessione dell’azienda al cessionario delle quote se l’interprete riconosca nell’operazione complessiva – in base alle circostanze obiettive del caso concreto – una causa unitaria di cessione aziendale”;
- b) “in tema di imposta di registro, il P.R. n. 131 del 1986, art. 20 non detta una regola antielusiva, ma una regola interpretativa, la cui applicazione da parte dell’ufficio finanziario non è soggetta al contraddittorio endoprocedimentale previsto per l’applicazione delle disposizioni antielusive ( D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, poi L. n. 212 del 2000, art. 10-bis), bensì alla verifica giurisdizionale circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione dei negozi”.
L’ultimo punto “ … verifica giurisdizionale circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione dei negozi“, sembra, invece, porre in modo chiaro un nuovo limite all’attività riqualificatoria degli uffici finanziari, nel senso che la stessa non può esorbitare i criteri di ermeneutica contrattuale ex art. 1362 e segg del cc. . In sostanza, l’effettiva volontà delle parti, come accertabile in base ai suddetti criteri civilistici, non è più semplice elemento concorrente alla definizione della fattispecie tributaria, ma limite esterno oltre il quale l’attività interpretativa dell’amministrazione finanziaria non può andare, cioè elemento che l’ufficio non può travalicare. Donde, l’effettiva sostanza economica va vista alla luce della effettiva volontà delle parti.
Ed infatti, in motivazione, la sentenza riporta quanto segue :
“L’interpretazione aderente ai canoni legali ermeneutici restituisce l’operazione negoziale nella sua realtà, scongiurando il rischio di un’alterazione della volontà privata; rischio paventato – oltre che dalla controricorrente – da quella dottrina che teme un’imposizione aliud pro alio ovvero l’arbitraria sostituzione della fattispecie imponibile.”
Quindi, secondo la Sentenza in commento, l’Agenzia delle Entrate, nell’ambito dell’attività accertativa di cui all’art. 20, NON potrà giammai ignorare la volontà delle parti. Ovviamente essa, nella funzione ricostruttivo-interpretativa della causa reale del negozio giuridico, o dei negozi tra loro collegati, tesa alla definizione dell’effettiva sostanza economica (intrinseca natura) determinata (voluta !!) dalle parti, dovrà tener conto di quanto effettivamente voluto dalle parti secondo i canoni di ermeneutica contrattuale, nel rispetto delle regole ordinarie dei riparto probatorio di cui all’art. 2697 c.c. .
Quindi, l’attività di riqualificazione, lungi dall’essere un’attività antielusiva, deve limitare i suoi obiettivi alla individuazione della effettiva sostanza economica (intrinseca natura degli atti sottoposti a tassazione) compatibilmente e plausibilmente con l’effettiva volontà delle parti.