
CONTRASTO TRA CORTE di CASSAZIONE E AGENZIA DELLE ENTRATE SUL PRINCIPIO NOTO COME INCASSO GIURIDICO
(Risposta ad interpello n. 182/2025 relativo alla rinuncia a dividendi).
Sul concetto di incasso giuridico c’è disaccordo tra Cassazione e ADE.
Ne ha parlato EUTEKNE del Commercialista il 18 luglio mettendo in luce il punto critico. La novella legislativa del 2015 (Art. 13 del D. Lgs n. 147/2015) dispone che, in caso di rinuncia di crediti da parte dei soci, la società partecipata deve assoggettare a tassazione, in quanto sopravvenienza attiva, solo la parte del credito rinunciato che eccede il relativo valore fiscale (comma 4 bis, art. 88, TUIR). Correlativamente, il comma 6 dell’art. 94 ed il comma 7 dell’art. 101 TUIR dispongono che le rinunce dei crediti da parte dei soci, nei limiti del loro valore fiscale, aumentano il “costo fiscalmente riconosciuto” delle relative partecipazioni. L’ambiguità, quindi il contrasto tra Corte Suprema e AdE, nasce dal significato da attribuire al termine “VALORE FISCALE”, cui le citate norme fanno riferimento, che è sicuramente distinto dal concetto di “costo fiscalmente riconosciuto”.
Nel caso dei dividendi (Risposte ad interpelli nn. 59 e 182/2025), l’AdE dice che il Valore Fiscale è pari al valore nominale dei dividendi, invece la Cassazione (Sent. n. 16595/2023 e n. 19700/2025) dice che, trattandosi di redditi tassati con il principio di cassa, il valore fiscale è pari a zero.
Strano. Come potrebbe essere pari a zero il valore fiscale (l’imponibile) di un cespite (Dividendi) che è assoggettato a tassazione a titolo d’imposta del 26%? E’ impensabile che, ai sensi dell’art 27 del DPR n. 600/1973, si debba pagare il 26% su un valore che fiscalmente è pari a zero. In questo caso il “valore fiscale” non può che corrispondere all’imponibile della tassazione del 26% a titolo d’imposta. In altre parole, il termine “valore fiscale” esprime il significato del valore rilevante per il Fisco che, nel caso dei dividendi, non può che essere il valore nominale tassato ex art. 27 citato.
L’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate
Pertanto, secondo l’Agenzia la Sopravvenienza tassabile (differenza tra valore della rinuncia e valore fiscale) è pari a zero, invece secondo Cassazione la sopravvenienza attiva è pari al valore nominale dei dividendi rinunciati. Io ritengo che il “valore fiscale” dei DIVIDENDI deliberati a distribuzione sia quello NOMINALE, per cui la relativa RINUNCIA, ex co. 4 bis art. 88 TUIR, NON determina sopravvenienza attiva a carico della società (Il valore della rinuncia è uguale al valore fiscale/nominale dei dividendi). Si noti, ai sensi dell’art. 94, comma 6, l’ammontare dei crediti rinunciati (tutti i crediti, sia quelli di origine reddituale che patrimoniale, compresi i dividendi per i quali l’Assemblea ha deliberato la distribuzione) si aggiunge al costo della partecipazione per cui, in occasione della relativa cessione, l’eventuale PLUSVALENZA (Capital gain ex artt. 67 e 68 TUIR soggetto a tassazione del 26%) è parimenti ridotta.
A tal punto mi sembra giusto che i dividendi rinunciati vadano comunque tassati. L’imposta del 26% che pago sui dividendi, sia pure NON materialmente incassati, sarà in concreto risparmiata in occasione della eventuale successiva realizzazione del Capital Gain (Plusvalenza da cessione della partecipazione).
Quindi la soluzione ADE mi sembra più consona al SISTEMA tributario in vigore. Ovviamente, in tal modo l’incasso giuridico dei dividendi (o di altro cespite rinunciato di origine reddituale) rimane in essere. In fondo, il Legislatore del 2015 (art. 13 decreto internazionalizzazione) non ha eliminato il principio dell’incasso giuridico, bensì ha dato un ordine logico ed unico alle rinunce di crediti da parte dei soci, precisando che la “quota parte” della rinuncia non rilevante per la partecipata come sopravvenienza attiva, e neppure per il socio come costo della partecipazione, sia solo il “valore fiscale” della rinuncia stessa.
La ratio legis rimane quella di patrimonializzare le aziende italiane, senza caricarle di sopravvenienze attive e riconoscendo ai soci rinunciatari un maggior costo deducibile (Costo fiscalmente riconosciuto) in occasione della determinazione delle future plusvalenze imponibili. Peraltro, nella nostra logica costituzionale, ex artt. 2 e 53 Cost., è impensabile che i dividendi, utilizzati per aumentare il “costo” della partecipazione, possano passare come redditi non tassati. Sarebbe un ossimoro del nostro Sistema tributario.
L’interpretazione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione sostiene che il valore fiscale dei dividendi è pari a ZERO, in quanto gli stessi sono tassati per cassa. Sembrerebbe far scaturire la nullità del valore fiscale di un cespite dalla circostanza che lo stesso sia tassato per cassa in capo al socio/percettore e che il costo cui esso accede, sia stato dedotto per competenza dall’impresa partecipata.
Così, la novella del 2015 avrebbe eliminato il c.d. “salto d’imposta”, quale fattispecie che l’Amministrazione finanziaria aveva cercato di arginare con la valorizzazione del c.d. incasso giuridico già a partire dalla Circolare n. 73/1994.
La soluzione non appare soddisfacente. Al riguardo faccio notare che, nella sentenza n. 16595/2023, sono richiamate anche le indennità degli Amministratori, le quali, ai soli fini fiscali, sono dedotte per cassa anche in capo alla società partecipata, per cui neppure ci sarebbe discrepanza temporale (evento connaturato al concetto di salto d’imposta) tra la tassazione in capo al percipiente e la deduzione fiscale a favore dell’erogante.
In conclusione
Indefinitiva, dubito della bontà di questa soluzione che, peraltro, sembrerebbe contrastare anche con il significato letterale e logico sistematico delle norme introdotte da Decreto internazionalizzazione. Siete d’accordo?
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