
Percepita a carico dell’Inps, da parte del personale dipendente beneficiario di sentenze di retrodatazione giuridica ed economica, sia nel settore privato che pubblico, con particolare riguardo al personale dipendente dell’Amministrazione scolastica dello Stato (Spunto da Sentenza della Corte di Cassazione n. 28295 del 04/11/2019).
Com’è noto, l’indennità di disoccupazione spetta ai lavoratori dipendenti che involontariamente
perdono il lavoro. Gli elementi costitutivi del diritto dell’indennità di disoccupazione in parola sono:
- la preesistenza di un valido rapporto di lavoro
- la perdita dello stesso per ragioni non imputabili al lavoratore, quindi il passaggio involontario da uno stato di occupazione ad uno stato di disoccupazione.
Quest’ultima circostanza insorge sia nel caso di licenziamento del lavoratore da parte del datore di lavoro, sia nel caso dello spirare del termine finale di un contratto a tempo determinato.
Il primo caso riguarda principalmente il rapporto di lavoro privato, il secondo è tipico del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione scolastica dello Stato.
In effetti, si discute se, a fronte della sentenza del Giudice del lavoro che dispone la retrodatazione giuridica ed economica del rapporto di lavoro, a favore di personale già assunto ripetutamente dall’Amministrazione scolastica dello Stato con contratti a tempo determinato, sia legittimo chiedere la restituzione dell’indennità di disoccupazione percepita nei periodi di involontaria disoccupazione, generalmente cadenti nei mesi estivi.
In sostanza, occorre chiedersi se, una volta che il Giudice disponga la retrodatazione del rapporto a tutti gli effetti, quindi a seguito di “conversione/trasformazione” del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto a tempo indeterminato, il lavoratore perde il requisito dello stato di disoccupazione, per cui deve restituire le somme indebitamente riscosse all’Inps, con simmetrico diritto di quest’ultimo a chiederne la ripetizione (nota n.1).
Le sentenze di retrodatazione sono pronunciate sia a fronte di accertamenti giudiziali del diritto del docente ad essere assunto anni addietro, sia per effetto del riconoscimento dei servizi svolti con contratti di lavoro a tempo determinato, come se fossero stati svolti nell’ambito di un unico e continuativo rapporto di lavoro a tempo indeterminato, pur non potendosi parlare, nel caso di pubblici dipendenti, di conversione o trasformazione di rapporti di lavoro a tempo determinato in un unico rapporto a tempo indeterminato con effetti ex tunc.
Infatti, per ciò che attiene, alla conversione dei rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato, va subito detto che, nel pubblico impiego, essa non è ammessa perché contrasta con l’art. 97 della Costituzione, come chiaramente rilevato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 5072/2016 e dalla Corte Cost. n. 89/2003 in riferimento all’art. 36, co. 2 del D.L.vo n. 165/2001 vigente ratione temporis. Peraltro, tale conclusione non è stata frontalmente contrastata neppure dalle seguenti sentenze della Corte di Giustizia Europea: Sentenza n. 494/17 del 08/05/2019, Sentenza c.d. Mascolo e altri del 26/11/2014 resa nelle cause riunite C-22/13, 61/13, 63/13 e 418/13, Sentenza Santoro n. 494/2018, che ha sostanzialmente ripreso la giurisprudenza della nostra Cassazione SS UU n. 5072/2016, e tantomeno dalla sentenza n. 466/2018 che ha richiamato la precedente Sentenza n. 302 e 305/2012 valevole anche per le ricostruzioni di carriera del personale scolastico.
Le norme applicate nel settore scolastico
Pertanto, la retrodatazione di cui qui si tratta, si riferisce sostanzialmente agli effetti economici che il personale pubblico dalla stessa può godere, fermo restando i vincoli di legge (Veggasi anche art. 36, comma 5, D. L.vo n. 165/2001).
Ma facciamo attenzione, detta retrodatazione giuridica ed economica non è così “lontana” nei fatti dalla conversione/trasformazione del rapporto di lavoro privato, ove risultino soddisfatti anche i requisiti concorsuali richiesti dal citato art. 97. Tale assunto è ulteriormente rafforzato dalla previsione normativa ex art 36, comma 2 del citato decreto n. 165, ove si dispone che, per prevenire fenomeni di precariato la P.A. sottoscrive contratti a tempo determinato con vincitori ed idonei delle graduatorie
vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato, nonché dalle previsioni di cui all’art. 20, comma 1 del D. L.vo n. 75/2017 emanato sulla base delle indicazioni della L. n. 124/2015, c.d. legge Madia. In entrambi i casi la P.A. sottoscrive contratti a tempo determinato con soggetti che hanno superato il concorso previsto dall’art. 97 della Costituzione. E’ bensì vero che dette due norme non trovano applicazione nel settore scolastico per espressa previsione di esclusione del co. 9 art. 20 e del co. 5- quinquies art. 36 appena citati.
Nel settore scolastico, per la stipula dei contratti a tempo determinato, si applica l’art. 4 della legge n. 124/1999 e relativo decreto di attuazione n. 201/2000. In buona sostanza, i contratti a tempo determinato per le supplenze annuali, su organico di diritto e di fatto, sono stipulati con docenti che hanno anche titolo ad essere assunti in ruolo, per cui ricorrendo gli altri presupposti di legge, detto personale potrebbe stipulare il contratto a tempo indeterminato. Peraltro, la sentenza n. 187/2016 della
Corte Costituzionale, che dà seguito alla c.d. Sentenza Mascolo e altri della Corte di Giustizia UE del 26/11/2014 resa nelle cause riunite C-22/13, 61/13, 63/13 e 418/13, a sua volta sollecitata dall’Ordinanza della Corte Costituzionale n. 207/2013, di rimessione degli atti alla CUGE, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 11 della legge n. 124/1999, nella parte in cui autorizza, senza indicare limiti effettivi all’utilizzazione ed alla durata massima, il rinnovo potenzialmente illimitato dei contratti a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti e personale ATA, senza che ragioni obiettive lo giustifichino. Non a caso la legge n. 107/2015 (c.d. legge sulla “buona scuola” del Governo Renzi), oltre a prevedere un piano di stabilizzazione del personale precario, all’art. 1,
comma 131, prevede che i contratti a tempo determinato del personale scolastico non possono superare i 36 mesi, anche non continuativi. Addirittura, con il comma 132 viene stanziato un fondo per fronteggiare il pagamento dei danni conseguenti alla reiterazione dei contrati a tempo determinato, su posti vacanti e disponibili, oltre i 36 mesi.
Non va sottaciuto che spesso le sentenze di primo grado e d’appello, facendo leva sui principi antiabuso del contratto a tempo determinato, ai sensi della clausola n. 5 della Direttiva 28/06/1999 n.1999/70/CE, riqualificano, in un unico e continuativo rapporto di lavoro, la stipula di una serie di contratti a tempo determinato, e precisamente fino al termine delle attività didattiche, con personale che, avendo superato un concorso pubblico, risulta iscritto nelle graduatorie utili per l’individuazione del personale da assumere a tempo indeterminato. In effetti, la stessa Corte Costituzionale, con Sentenza n.187/2016 citata, ha assunto posizioni più ampie rispetto al ristoro del “danno comunitario” indicato dalle SS UU n. 5072/2016 e dalle successive Sentenze Cassaz. Sez. Lavoro nn. 22552 – 22557/2016, le quali hanno fatto leva sull’inesistenza di un posto a tempo indeterminato “da convertire” nel settore pubblico per carenza del requisito ex art. 97. Peraltro, lo Stato per fronteggiare le problematiche di finanza pubblica, che da tale complesso normativo potevano scaturire, è intervenuto in modo massiccio con la stabilizzazione di cui alla legge n. 107/2015 sopra citata, c.d. della “Buona Scuola”, cosicché ha definitivamente posto in essere ogni forma di contrasto all’abuso del tempo determinato nel settore scolastico.
Ma a parte tutto, in linea generale, il personale, beneficiario della sentenza di retrodatazione, spesso ignaro delle complesse questioni giuridiche da sciogliere per comprendere l’esatta portata del “nuovo rapporto”, si potrebbe vedere, da un lato obbligato alla restituzione dell’indennità di
disoccupazione non più spettante, almeno per i periodi non coperti da prescrizione, e dall’altro dovrebbe “fare i conti” con chi di conti si interessa, ad es., per i pubblici dipendenti, con gli Organi pagatori dello Stato, i quali, prima eseguire qualsiasi pagamento, devono verificare la correttezza amministrativo–contabile, nonché la fondatezza giuridica del pagamento medesimo.
In sostanza, il Giudice del lavoro, con la sentenza di retrodatazione giuridica ed economica realizza una sorta di “parziale novazione oggettiva” del rapporto di lavoro, i cui effetti vanno attentamente analizzati, atteso che spesso non si leggono “de plano” nella sentenza stessa.
Sul punto bisogna ricordare che il giudice, per il principio processuale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, decide in base alla domanda svolta dal lavoratore, parte attrice. Pertanto, si può ben credere che sentenze con “dispositivi generici”, quindi poco esplicativi ai fini della loro esecuzione, siano il frutto, o meglio la risposta, a domande tese ad ottenere l’altrettanto generico diritto alla complessiva retrodatazione del rapporto di lavoro, magari funzionalmente attuato con una serie di contratti a tempo determinato, tale da considerarlo a tempo indeterminato, cioè dalla data del primo rapporto a tempo determinato, oppure la costituzione con efficacia ex tunc, ai sensi dell’art. 63 del D. L.vo n. 165/2001, di un rapporto di lavoro illegittimamente negato dalla P.A.
Un esempio concreto
Ritornando al caso di un lavoratore che ha visto giudizialmente rivalutato il suo rapporto a tempo determinato, in un contratto a tempo indeterminato, se il Giudice si limita a riconoscere la sola retrodatazione giuridica, chiunque pensa che si tratti di un riconoscimento che, nell’escludere gli effetti economici, lasci sostanzialmente il lavoratore in una condizione di precarietà per i periodi “di non lavoro” interessati dalla sentenza, rimanendo quindi inalterato lo stato di disoccupazione vissuto dal
lavoratore nei periodi intertemporali in cui ha goduto del regime indennitario previdenziale.
La questione si complica allorché la sentenza disponga la retrodatazione giuridica ed economica.
Il nodo gordiano da scogliere ruota tutto intorno al significato dell’espressione “retrodatazione economica” che il Giudice le attribuisce senza meglio esplicitarla né in dispositivo, né in motivazione.
Eppure il Giudice sa cosa vuole dire: Iura novit curia.
Ora, per comprendere il significato di tale locuzione, non possiamo che affidarci alla giurisprudenza in materia, quindi dobbiamo cercare di comprendere cosa vogliono dire le norme oggi in vigore in materia di diritto del lavoro e che il giudicante interpreta quando dispone la retrodatazione economica. In altre parole, dobbiamo comprendere come le norme oggi regolano il rapporto di lavoro alle dipendenze altrui. Trattasi di un contratto a prestazioni corrispettive e di durata, sostanziato dalla collaborazione che il prestatore deve eseguire nell’interesse del datore di lavoro, il quale è obbligato al pagamento della retribuzione al lavoratore ed al versamento dei contributi previdenziali all’Inps.
Senza scendere nel carattere triale del rapporto – tra il lavoratore ed il datore sorge l’obbligo di reciproche prestazioni: La collaborazione del lavoratore da un lato, e la retribuzione a carico del datore dall’altro. La risposta alla nostra domanda passa necessariamente attraverso l’analisi giuridica del rapporto di lavoro.
Da ultimo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ribadito che il rapporto di lavoro va riguardato sotto due aspetti: come sinallagma genetico e come sinallagma funzionale (Corte Cassaz. SS
UU n. 2990/2018, richiamata e “fatta propria” dalla Sentenza della Corte Cost. n. 29/2019). Il primo si riferisce all’obbligo di eseguire le suddette prestazioni da parte dei contraenti, al programma contrattuale, a quello che i contraenti vogliono realizzare insieme, come cioè vogliono tra loro “legare” le reciproche prestazioni. Il secondo (sinallagma funzionale) si riferisce all’effettiva esecuzione di tali obbligazioni, quindi al legame tra la prestazione del lavoratore (collaborazione nell’impresa del datore di lavoro) e la controprestazione a carico del datore, quindi al pagamento della retribuzione, tenendo conto che, per effetto della previsione dell’art. 1460 cc se uno dei contraenti non esegue o non offre la prestazione, l’altro può esimersi dall’esecuzione della controprestazione. In definitiva, se non c’è effettivo lavoro da parte del lavoratore, oppure offerta della prestazione lavorativa nei modi di legge ex artt. 1206 – 1217 cc, il datore non è affatto obbligato al pagamento della retribuzione.
Le eccezioni alla suddetta “stretta corrispettività”, sostanziante il sinallagma funzionale, sono quelle espressamente previste dalla legge (ferie, malattia, maternità, assenze D. L.vo n. 151/2001, ecc) oppure espressamente enucleate dalla giurisprudenza (inefficacia del trasferimento dei lavoratori ex art. 2112 cc, a seguito della declaratoria giudiziale della nullità dell’atto di cessione d’azienda; rifiuto datoriale alla riassunzione del lavoratore post conversione giudiziale del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato; casi di acclarata interposizione fittizia. Cfr SS UU citata n. 2990/2018). Oltre alle suddette fattispecie, quando manca la prestazione del lavoro non c’è obbligo della controprestazione, quindi del pagamento della retribuzione. Ciò in quanto manca il sinallagma funzionale, cioè le effettive prestazioni contrattuali.
Ma se il rapporto di lavoro, inteso come diritto alla stipula di un contratto di lavoro da parte di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro è comunque giuridicamente riconoscibile, quale diritto spetta al lavoratore? In altre parole, se a fronte del contratto di lavoro, giudizialmente riconosciuto, lo stesso non sia stato affatto eseguito, cosa spetta al lavoratore illegittimamente estromesso, o ancora, mai ammesso, nel posto di lavoro?
E’ evidente che in questo caso ci troviamo di fronte al c.d. sinallagma genetico. Il diritto del lavoratore si concreta nella ristorazione del danno sofferto. Il giudice sarà chiamato a determinare il danno che il lavoratore ha subito e del quale deve essere indennizzato. Trattandosi di danno (e non di prestazione, cioè “non” di diritto ad una retribuzione per un lavoro “non” svolto) questo è sottoposto al principio della compensatio lucri cum danno, cioè della compensazione (sia pure diversa dalla compensazione in senso tecnico ex art. 1241 e segg cc prevista per rapporti di crediti e debiti tra i medesimi soggetti reciprocamente debitori e creditori) dell’intero danno con i benefici che il lavoratore ha conseguito per effetto della mancata assunzione o ingiusto licenziamento, abuso del tempo determinato, ecc. , così da sostanziare il principio di effettività del danno ex art. 1223 cc.
Per meglio comprendere il concetto di sinallagma genetico, basti pensare all’art. 63 del D. L.vo n. 165/2001, ai sensi del quale il giudice “costituisce” il rapporto di lavoro con effetti retrodatati. Ora qui è evidente che il Giudice, con una sentenza di natura costitutiva, crea nel mondo giuridico un rapporto che (proprio perché creato dal giudice, quindi prima inesistente) non si è giammai realizzato nella realtà effettuale, il lavoratore non ha mai lavorato ed il datore non ha mai pagato le retribuzioni. Con la creazione giudiziale, con effetti ex tunc, il rapporto non potrà che avere rilievo come sinallagma genetico con obbligo del risarcimento dei danni da parte del datore di lavoro a favore del lavoratore, al netto delle eccezioni processuali improprie (assimilabili a mere difese) quali l’aliunde perceptum e l’aliunde
percepiendum.
In definitiva, a parte le eccezioni di legge sopra richiamate, se c’è prestazione di lavoro (situazione opposta allo stato di disoccupazione quale elemento costitutivo della corrispondente indennità previdenziale) c’è diritto alla controprestazione, cioè alla retribuzione. All’opposto, se, a
seguito di sentenza, insorge il diritto del lavoratore ad essere assunto con effetto retrodatato, questi avrà diritto al risarcimento del danno per non aver potuto esplicare la sua funzione lavorativa sin dal termine
iniziale del rapporto come giudizialmente riconosciuto, al netto dell’aliunde perceptum, fermo rimanendo il suo stato effettivo di disoccupazione con conseguente diritto alla corrispondente indennità
a carico dell’Inps.
In parole semplici, se per un determinato periodo di tempo il lavoratore ha diritto alla retribuzione non può essere considerato disoccupato e quindi non può avere diritto all’indennità Inps (Cassaz 28295/2019, 6265/2000, 3904/2002, 9109/2007,9418/2007).
Peraltro, la retribuzione, quale controprestazione del proprio obbligo sinallagmatico ad eseguire una determinata prestazione lavorativa non può essere assoggettata ad alcuna compensazione e tantomeno all’istituto della compensatio lucri cum danno.
In conclusione, nei casi in cui il lavoratore beneficiario di una sentenza di retrodatazione giuridica ed economica, ove per economico si intende solo il diritto alla ristorazione del danno ingiustamente subito dall’illegittimo comportamento datoriale, conserva lo stato di disoccupazione, conserva il diritto all’indennità di disoccupazione/Naspi con la precisazione che questa può essere oggetto di conguaglio con il “danno lordo” in quanto costituisce aliunde perceptum. Infatti, il lavoratore ha percepito tale
indennità per lo stesso fatto, o meglio sulla base degli stessi presupposti che hanno dato vita al riconoscimento del danno risarcitorio (in particolare cfr Cassaz. n. 2906/2006). All’opposto, nei casi in cui il lavoratore si vede attribuire dal giudice il diritto alle retribuzioni non corrisposte medio tempore, non avrà diritto alla Naspi/indennità di disoccupazione e se percepita va restituita all’Ente creditore, cioè all’Inps, non potendo operare nessuna compensazione perché non si tratta di danno ma di credito da
prestazione eseguita, ovvero offerta nei modi di legge (art. 1460, 1206 -2117 cc). Ovviamente la suddetta ripetizione di indebito ex art. 2033 cc, incontra il limite della prescrizione decennale ex art. 2946 cc. tenendo anche nella debita considerazione l’istituto della sospensione della prescrizione causato dall’eventuale doloso occultamento (ex art. 2941, punto 8 del cc) del credito da parte del debitore (lavoratore in realtà non disoccupato) nei confronti del creditore ai fini della restituzione della non dovuta prestazione previdenziale (Inps).
E’ anche il caso di notare che la conversione di un rapporto a tempo determinato in un rapporto a tempo indeterminato, caratterizzato dalla presenza al lavoro solo per parte dei mesi dell’anno, realizza, sia pure ex post, un contratto di lavoro a tempo indeterminato e a tempo parziale di tipo verticale.
Per questi contratti di lavoro sia le Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1732/2013 che la Corte Costituzionale n. 121/2006 hanno ritenuto che non spetti l’indennità di disoccupazione per i periodi morti dell’anno, cioè per i periodi di non lavoro, in quanto la scelta del contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale è volontariamente assunta dal lavoratore, per cui, per i suddetti “periodi morti” non spetta l’indennità previdenziale in quanto carenti del requisito dell’involontarietà dello stato di disoccupazione. Ma a ben vedere, nei casi in cui la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed a tempo parziale di tipo verticale, insorge per effetto di una sentenza, avente natura costitutiva, quindi con
efficacia retroattiva, che sancisce la “conversione” di una serie di rapporti di lavoro a tempo determinato in un unico continuativo contratto di lavoro a tempo parziale, non appare affatto compatibile con lo stato di involontarietà della disoccupazione tipico di chi volontariamente accetta ex ante un lavoro a tempo parziale ciclico in regime di tempo indeterminato. Infatti, nel caso che ci occupa è la sentenza di natura costitutiva, con efficacia retroattiva, che considera una serie di rapporti di lavoro a tempo
determinato, come un unico e continuativo rapporto di lavoro, in sostanza, come se fosse stato svolto a tempo indeterminato, sia pure per limitati periodi dell’anno ad es. 01/09 dell’anno X fino al 30/06 dell’anno X + 1, lasciando “morti” i periodi 01/7 – 31/08, e che definisce l’effettivo periodo di lavoro annuo interessato dal sinallagma funzionale, non già il contratto volontariamente sottoscritto dal lavoratore ex ante, cioè volontariamente all’inizio del rapporto di lavoro.
Pertanto, l’indennità di natura previdenziale, prevista dall’art. 38, comma 2 della Costituzione, spetta ai lavoratori beneficiari di sentenze di retrodatazione giuridica ed economica, ove per economica si intende riferirsi al solo sinallagma genetico, quindi al solo danno risarcitorio e non alla retribuzione, quale controprestazione rilevante nell’ambito del sinallagma funzionale.